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Ultimo aggiornamento 6 Ottobre 2021

Licenziamento illegittimo: cosa deve fare il lavoratore?

La Legge n. 183/2010 ha, tra le altre cose, ridisegnato la procedura relativa alle impugnazioni dei licenziamenti.

Licenziamento illegittimo: una nuova fattispecie decadenziale

Il legislatore ha creato una sorta di “catena di adempimenti” che grava in capo al lavoratore, in merito all’efficacia sostanziale e procedurale della stessa contestazione del licenziamento.

Secondo il novellato testo dell’art. 6 della l.n. 604/1966, occorre che il lavoratore impugni stragiudizialmente il provvedimento di licenziamento entro 60 giorni dalla ricezione dello stesso.

Il lavoratore può impugnare il licenziamento illegittimo autonomamente, a mezzo di una Organizzazione Sindacale oppure per il tramite di un proprio procuratore.

Una volta impugnato il licenziamento illegittimo, il lavoratore, entro ulteriori 180 giorni, deve richiedere l’apertura di una procedura conciliativa/arbitrale ovvero deve depositare il ricorso giudiziario.

Che succede nel caso in cui il lavoratore impugni più volte il licenziamento illegittimo?

Il caso più comune è quello rappresentato da una prima impugnazione alla quale, sempre entro i 60 giorni dalla notifica del provvedimento espulsivo, abbia fatto seguito un’ulteriore impugnazione. Questa seconda impugnazione, spesso viene inviata in nome e per conto del lavoratore a cura di un avvocato.

Non si tratta di un accadimento particolarmente raro, specie nell’attuale clima di generale sfiducia che sta vivendo il sindacato.

Da quando decorrono i 180 giorni utili alla proposizione del ricorso o del procedimento conciliativo/arbitrale?

Per avere la certezza del termine iniziale occorre avere riguardo ai concetti generali di rappresentatività e di conoscenza/coscienza delle conseguenze giuridiche degli atti formali riguardanti la difesa e l’esercizio dei diritti individuali.

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che il termine decadenziale di 180 giorni inizi a decorrere dall’impugnazione effettuata dal lavoratore con l’assistenza di un avvocato e non da quella, precedente, avvenuta tramite un’Organizzazione Sindacale la quale aveva operato senza specifico mandato da parte del lavoratore licenziato (avvenuta comunque entro i 60 giorni dall’avvenuta notifica del provvedimento di licenziamento) (Corte di Cassazione, sentenza n. 16591/2018).

Nel fare ciò, i Giudici di legittimità hanno richiamato i concetti di “volontà e consapevolezza” dell’esistenza dell’atto impugnativo da parte del lavoratore.

Infatti, nel caso in cui venisse ritenuta come valida ai fini della determinazione del giorno iniziale del termine decadenziale di 180 giorni l’impugnazione “non consapevole” (effettuata, come detto, da un’Organizzazione Sindacale), si violerebbero l’art. 24 della Costituzione, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e gli artt. 6 e 13 della CEDU; norme che garantiscono l’effettivo esercizio del diritto di difesa.

La violazione del diritto di difesa

Diversamente, verrebbe, quindi, violato irreparabilmente il diritto ad una compiuta difesa in un ambito a protezione particolare come quello del lavoro subordinato.

La stessa Corte di Cassazione, sempre nella pronuncia in analisi, ha correttamente evidenziato come “…la volontà e la consapevolezza della esistenza dell’atto incidono sull’esercizio del diritto di difesa in quanto solo una visione completa e informata da parte dell’interessato delle varie scansioni temporali, cui successivamente è obbligato, non determina una compromissione della sua tutela giudiziaria…”.

Il parere dell’Avvocato

L’Avv. Michele Sacchi precisa che “questo non significa il termine decadenziale debba essere calcolato sempre dalla impugnazione avvenuta a firma di un avvocato. Invero, nel caso in cui l’attività sindacale si sia concretizzata in atti che abbiano inequivocabilmente coinvolto direttamente il lavoratore nella fase impugnativa e che, di fatto, “denuncino” una sua consapevolezza in merito alle azioni anche indirettamente svolte, il termine decadenziale partirà da questa prima impugnazione”.

Il consiglio per il lavoratore

E’ bene, dunque, che il lavoratore agisca tempestivamente e con la dovuta consapevolezza, rivolgendosi a professionisti competenti che possano attivare la procedura di impugnazione del licenziamento nel rispetto dei termini decadenziali.

Il consiglio per il datore di lavoro

Dal lato datoriale, il datore di lavoro che vorrà fare valere la decadenza dal diritto di impugnazione (o di proposizione di una procedura conciliativa od arbitrato) in capo al lavoratore, dovrà dimostrare che, in sede di “prima impugnazione”, il lavoratore fosse ben consapevole di avere “dato il via” ad una procedura complessa e concatenata, fatta di termini successivi.

Ciò potrà essere ben provato non solo dalla sottoscrizione del lavoratore dell’impugnazione come inviata e formata dall’Organizzazione Sindacale, ma anche dall’effettuazione di attività stragiudiziale (e-mail od altri scritti tesi ad una ricerca della composizione della vertenza) e statutaria (es.: svolgimento dell’incontro ex art. 7 della l.n. 300/1970 con successiva impugnazione della sanzione espulsiva) che abbia coinvolto attivamente e fattivamente il lavoratore assieme al delegato sindacale.

In conclusione..

Quindi, è certo vero che viene correttamente riconosciuto al Sindacato un ruolo di difesa “generale” dei diritti dei lavoratori in caso di licenziamento (l’impugnazione da parte di una O.S. è comunque valida in quanto tale, anche se non perfettamente conosciuta dal lavoratore ed è pertanto utile ad evitare la decorrenza del primo termine di 60 giorni).

Tuttavia, qualora il lavoratore abbia presentato successiva e tempestiva impugnazione con l’assistenza di un avvocato, tale ruolo – a meno che sia stato svolto compiutamente e quindi dimostri un coinvolgimento fattivo ed informato del prestatore impugnante – non può e non deve incidere negativamente sul pieno esercizio del diritto di difesa del lavoratore.


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